Storia

La nascita del Premio Bancarella è dovuta alla tradizione dei Librai Pontremolesi, fenomeno particolare e unico in Italia. Dall’alta Lunigiana, terra di grande emigrazione, dai paesi di Montereggio, Parana, Pozzo, Mulazzo, Busatica, Filattiera, Bratto, sono partite generazioni e generazioni di librai ambulanti. Per i venditori ambulanti pontremolesi l’appuntamento era in primavera al passo della Cisa, sull’antico itinerario della via Francigena, che divide la Lunigiana dalla Padania. Nei verdi prati dell’Appennino si svolgeva il rito sacro dell’assegnazione delle zone dove andare a vendere, in modo da evitare l’inutile e dannosa concorrenza, e scambiarsi le preziose informazioni per rifornirsi dei libri. Difficile trovare dove comprare libri a prezzo conveniente e adatti alle esigenze della loro clientela. L’ideale trovare un editore dove acquistare i resti di magazzino coi pochi soldi ricavati dalla vendita delle castagne, del formaggio e delle foglie di gelso.
Una vita piena di grandi sacrifici, ma anche di tante soddisfazioni per i risultati commerciali, i successi economici e i consensi culturali. Scrive Oriana Fallaci che nel 1952 partecipa alla nascita del Premio Bancarella: «Non avevano confidenza con l’alfabeto, ma “sentivano” quali libri era il caso di comprare e quali no: in virtù di un sesto senso che, dicono, è stato loro donato dal demonio in un’ora di benevolenza» (Hanno nella valigia i cavalieri antichi, «Epoca», 6 settembre ‘52). Oltre agli almanacchi, utili a scandire la vita dei campi, i Pontremolesi acquistavano nell’Ottocento libri popolari come I reali di Francia, il Guerin Meschino, i Tre moschettieri, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, le Poesie del Giusti, la Genoveffa, la Massima eterna e altri libri di preghiere, l’Orlando Furioso, la Gerusalemme Liberata, le Tragedie del Manzoni e perfino il Boccaccio. Con la gerla piena di libri, pietre da limare e altra merce, andavano per le campagne soprattutto del nord d’Italia a vendere con mille accorgimenti i libri ai contadini. «Aprivano per esempio una pagina qualsiasi dell’Orlando Furioso e cominciavano a declamare. Non leggevano, ma ripetevano le ottave che avevano sentito leggere da altri. I contadini, dopo essersi fatti giurare sulla Madonna dei Sette Rosari che lì dentro c’erano scritte proprio quelle belle parole, si decidevano a prendere il libro per non meno di dieci soldi» (Ibidem).
La vendita all’aperto, con l’esposizione di tutta la merce e i costi ridotti d’esercizio, presentava vantaggi rispetto ai negozi, ma anche tante difficoltà per il trasporto delle merci e la precarietà delle stagioni. Per ovviare ai tanti inconvenienti, i librai lunigianesi si affidano ai banchi stabili come punti di vendita nei luoghi più centrali delle città. I “bancarellai”, poveri di capitali e costretti a praticare i prezzi bassi, puntano sul passante frettoloso, cui offrono un tipo determinato di merce: stampe, calendari, libretti religiosi, romanzi e opere teatrali. Tutti prodotti che risentono meno della concorrenza dei negozi. «Alla fine dell’Ottocento molti girovaghi pontremolesi avevano fatto un patrimonio. I loro figli andavano a vendere in carrozza ed avevano aperto notevoli Case Editrici. I meno fortunati possedevano almeno una bancarella fissa sotto i portici di qualche grande città. Da vecchi, cercavano un po’ di riposo, a quel modo. Ci pensavano i figli, cresciuti nelle ceste dei librai, a vagare per le montagne» (Ibidem).
Tra i primi a richiamare l’attenzione sui venditori pontremolesi è stato il giornalista e scrittore Luigi Campolonghi, nel romanzo autobiografico Una cittadina italiana fra l’80 e il 900 (Marsilio, Venezia 1988). Scrive Campolonghi che con i lavori della ferrovia La Spezia-Parma, negli ultimi decenni dell’Ottocento, «cominciarono a tornare i librai ambulanti di Montereggio (tutti i librai ambulanti che si vedon per le vie del mondo vengon da Montereggio), che costruirono bellissime ville sul poggio originario, rinnovando il vecchio borgo decrepito». Campolonghi aveva conosciuto alcuni di questi a Parma negli anni degli studi liceali al Collegio Maria Luigia. «Mi raccontarono quei librai, un giorno che — essendo andato a trovarli — mi facevano gran festa, che sotto la dominazione austriaca il loro mestiere era difficile e pericoloso, non essendo raro il caso che, non appena essi entravano in un paese con la cassetta dei libri a tracolla, il prete suonasse le campane a martello sollevando la popolazione contro di loro. Per questo motivo, i librai ambulanti decisero di accodarsi all’esercito italiano, e così accadde che, quando in un paese entravano i soldati, vi entrava nello stesso tempo il libro: il più vero e grande liberatore».
Molte delle librerie del nord e centro Italia sono state aperte e, in parte, sono ancora gestite dai Pontremolesi che sono emigrati dalle balze dei monti dell’alta Lunigiana. I loro nomi appartengono tutti ad uno stesso ceppo, in quanto imparentati fra loro, e tutti, dopo aver svolto la vendita ambulante, si sono fermati con le loro bancarelle e hanno aperto negozi nelle varie città. I Rinfreschi a Bolzano, Piacenza, Pistoia, Genova e nel Canton Ticino; i Vannini a Parma, Acqui e Brescia; i Galleri a Bologna, Lucca, Pisa, Siena e Milano; i Ghelfi a Verona, Brescia, Padova, Vicenza, Venezia, Piacenza, Parma, Bologna, Ferrara, Rimini, Milano, Recoaro, Treviso, Ancona, Montecatini, Cattolica, Recanati, Orvieto e Vercelli; i Giovannacci a Parma, Piacenza, Como, Sondrio, Varese, Vercelli, Chiavenna, Domodossola, Casale Monferrato, Milano, Voghera, Biella, Alessandria e Courmayeur; i Bertoni a Piacenza, Parma, Voghera, Como, Domodossola, Mantova, Udine, Verona, Vicenza, Venezia e Genova; i Fogòla a Torino, Pescara, L’Aquila, Ancona, Sesto San Giovanni, Genova e Pisa; i Maucci alla Spezia, Genova, Sassari, Milano, Siena e Savona; i Lorenzelli a San Pellegrino, Brescia, Bergamo, Bra, Mantova e Cremona; i Giambiasi a Salsomaggiore, Massa, Como e Savona; i Tarantola alla Spezia, Modena, Parma, Ravenna, Padova, Piacenza, Treviso, Como, Venezia, Udine, Monza, Milano, Belluno, Teramo, Pescara, Bergamo, Brescia, Novi Ligure, Massa e Palermo; i Lazzarelli a Biella, Vercelli, Novara e Imperia; i Lodola a Savona, Massa e Salsomaggiore; i Pellegrini a Cuneo, Mantova e Verona; i Lorgna a Biella, Chiavenna e Acqui; i Cattoni in Francia e nell’Astigiano; i Verducchi a Ferrara; i Bizzarri a Legnano; i Caldi ad Asti; i Simonelli a Perugia; i Zanarelli a Ferrara e Lodi; i Giorgini in Piemonte e a Genova; i Bardotti in Francia e Toscana; i Mancini, i Paolazzi, i Tomasinelli, i Galeazzi e i Donnini in giro per il Piemonte; i Coselli, Orlandini, Micheloni, Tolozzi e Bardini a Genova, i Cattoni di Busatica nel secolo scorso svolgono la vendita ambulante nel nord d’Italia. Questi uomini rappresentano gli antesignani del libro venduto a basso prezzo, accessibile ad ogni borsa, e costituiscono ancora oggi, nonostante le trasformazioni subite dai loro discendenti, «una casta a parte».
Alberto Vigevani, bibliofilo poeta romanziere, nelle sue memorie intitolate La febbre dei libri (Sellerio, Palermo 2000), scrive che quand’era ragazzo (Vigevani è nato a Milano nel 1918) vi erano case editrici «che stampavano apposta, su pessima carta, con caratteri usurati, in misere brossure, libri fuori diritti o in traduzioni trucemente scorrette — da Tolstoj a Dumas, da Casanova a Dostoevskij, a Dickens — per smerciarli attraverso le bancarelle che appartenevano tutte a pontremolesi». «Come i quasi conterranei lucchesi che giravano da ambulanti le terre più lontane, vendendo statuine, i pontremolesi si erano sparsi per l’Italia con le bancarelle. Erano spesso parenti: si chiamavano, e si chiamano, Tarantola, Fogola, Gandolfi, Ghelfi, Lorenzelli, Barbato. Spesso si univano per comprare al miglior prezzo fondi di magazzino. Dai loro lombi nacquero dinastie proprietarie di alcune tra le più affermate librerie nel centro delle grandi città».
Ma, chi sono questi librai lo spiega con efficace chiarezza Giovanni Ungarelli, il direttore commerciale di grandi case editrici, che li ha veramente conosciuti. «Gli appartenenti si distinguono immediatamente, hanno caratteristiche tipiche del popolo della Lunigiana, non si assomigliano ma in comune hanno l’originalità che ogni soggetto esprime in maniera propria e singolare senza mai cadere in banali imitazioni, si propongono rudi e simpatici, cordiali e suscettibili, umili e altezzosi, timidi e arroganti, ma sempre coscienti che il loro mestiere è anche una missione. Sanno che librai pontremolesi si nasce e non si diventa» (Ma cos’è, dunque, questo Premio Bancarella, «Almanacco del Bancarella 1991»).
Il Premio Bancarella nasce da questa tradizione che caratterizza la storia dell’emigrazione lunigianese. Pietro Ferrari, lo storico della Lunigiana feudale, nell’almanacco pontremolese “Il Campanone” del 1940, scriveva l’articolo I nostri «Librai». «Piccola terra, che alleva, insieme ai prodotti del suolo, pazientemente lavorato, il libro; e commercia in sapienza. Ma, intendiamoci; commercio librario in francescana modestia, in umiltà, senza grandezzate, con una palese preferenza per il libro vecchio, che ha già vissuto in case sparite, in librerie scomparse, in conventi ormai silenziosi. […] Anche noi abbiamo i “buchinisti” e sono tutti lunigianesi di Montereggio, e — in piccola parte — di Parana e di Mulazzo, e la loro tradizione è, forse, più nobile di quella dei colleghi parigini. […] Sono intere frazioni che, a primavera, sciamano e si disperdono per l’Italia — e non solo per l’Italia — a vendere, a prezzi minimi, il fiore più bello e il frutto più sostanzioso: quello dell’ingegno. Sì, alle modeste case di Montereggio e Parana, e alle dirute torri di Mulazzo, va questo merito: di aver nutrito una gente che si è dedicata allo spaccio della cultura. […] Naturalmente, anche i librai lunigianesi hanno seguito i tempi: oltre agli “ambulanti” e ai “buchinisti”… per elezione, vi sono gli editori e i librai, con tanto di vetrine di lusso. E non solo in Italia li troviamo, ma anche all’estero: in Ispagna, in Argentina, Nel Messico, dove i Maucci sono stati, per lunga serie di anni, i dominatori incontrastati di quei mercati librari. Fate l’appello di questi soldati — umili ma grandi — del sapere: chiamate i montereggini e i paranini Maucci, Bertoni, Tarantola, Fogòla, Galleri, Ghelfi, Rinfreschi, Paolozzi, Giovannacci, Lazzarelli, Simonelli; chiamate i mulazzesi Caselli, Orlandini, Lodola; essi rispondono: “presente”! Date ad essi la medaglia di benemerenza. Essi vi ringraziano: con un libro raro e… con un bicchiere di ottimo vino!».
Proprio dalla consapevolezza dell’importanza del fenomeno ha origine nell’agosto del 1952 il primo raduno dei Librai Pontremolesi. Se ne fa promotore Renato Mascagna, giovane collaboratore di Pietro Ferrari nelle manifestazioni culturali dell’«Estate pontremolese» del 1939. Scrive Oriana Fallaci: «Giunsero da tutte le parti d’Italia. Qualcuno arrivava in automobile, ma la maggior parte scendeva dal treno». «Gli uomini vestivano per lo più abiti a righe, e avevano sul panciotto, bene in mostra, la catena d’oro. Le donne, più dimesse, tenevano al braccio sinistro certe ampie borse da spesa. Erano i librai più vecchi del mondo: i capelli bianchi apparivano come distinzione necessaria in quell’adunata». «Non si riconoscevano più, quantunque molti fossero imparentati fra loro. Due, Elisabetta e Luigi Rinfreschi, non si vedevano da quarant’anni. Dal treno scese anche Bista Fogola, uno dei Fogola che ora sono sparsi un po’ dappertutto: a Pisa, a Torino, a Spezia, a Genova. ad Ancona. Venne uno dei Tarantola, uno dei Santoni, una discendente dei Maucci, Maria Maucci che incominciò a nove anni la sua carriera, a diciott’anni sposò un libraio, a vent’anni ne sposò un altro che le dette tre figli, ora tutti librai».
Da Pontremoli circa sessanta librai si trasferiscono a Mulazzo, dove in pineta «avevano alzato un palco alla meglio, con un microfono, quattro seggiole e una bandiera». Nel verde tra i pini sono presenti tanti bancarellai giunti dalle varie città, scrittori, editori e uomini politici. Sul palco si ricordano il ministro Giovanni Gronchi, l’editore Valentino Bompiani, Ernesta Cassola (la vedova di Luigi Campolonghi), Salvator Gotta, il sindaco di Mulazzo con la fascia tricolore, Perazzoli il segretario dell’Associazione Librai Ambulanti con posteggio fisso. Continua la Fallaci nel suo articolo: «Molti parlarono, ma il discorso impegnativo lo fece Gotta che, tra l’altro, disse un gran bene delle bancarelle. I librai stavano intorno, in piedi sotto i castagni, ad ascoltare con piglio competentissimo. L’indomani si barricano dentro il municipio di Pontremoli e fanno il solenne giuramento. In quella sala del palazzo comunale, proprio sotto il Campanone, «le loro facce rugose apparivano, nella penombra, solenni come quelle di arcaiche statue di legno». «Uno a un certo punto si alzò, alto e massiccio, con i baffoni all’umbertina, e disse: “Ed ora, amici, propongo un solenne giuramento: quello di ritrovarsi nel nostro paese, ogni anno, in un dato giorno, a questa stessa ora, finché Iddio ci conserva, e fare una bella mangiata”. Seguì un lungo silenzio; poi i librai alzarono lentamente all’altezza del viso la mano e giurarono».
Così nasce il Premio Bancarella, l’unico premio letterario gestito esclusivamente dai librai. Nel ‘53 vince Hemingway con Il vecchio e il mare, anticipando il Nobel; un evento che si ripeterà con Pasternak per Il dottor Zivago e con Singer per La famiglia Moscat. Il premio si è subito rivelato come un’idea geniale destinata a conquistare una sempre maggiore risonanza, tanto che oggi è riuscito a “ritagliarsi” una collocazione fissa nel calendario delle maggiori manifestazioni letterarie che si programmano in Italia. Intorno al Bancarella non ci sono le tanto criticate giurie ed è forse tutto qui il segreto del successo. Conta la “merce libro” non disgiunta dal suo valore letterario, una merce che ha un valido mercato, che poggia sulla fiducia reciproca che si è instaurata tra i lettori e i librai.
Pontremoli ogni estate fa da madrina al Bancarella. I librai si danno appuntamento in piazza per partecipare alla loro festa e assistere al rito dello spoglio dei voti da parte del notaio. La proclamazione avviene in piazza, ai piedi della torre medievale di Cacciaguerra, che è simbolo di pace come deve essere un buon libro. Scrive Valentino Bompiani: «Il premio Bancarella ha questo di speciale per un editore: che, al di là della vittoria, propiziata da statistica o da fortuna, si vive insieme con gli amici librai la sfida ininterrotta di una migliore diffusione del libro» (Lettera di Valentino Bonpiani a Mario Mengoli, 25-7-’62, in «Almanacco del Bancarella 1991»).
«Il più scoperto, il meno ipocrita che ci sia in Italia — ha scritto Vittorio Sgarbi, vincitore nel ‘90 con Davanti all’immagine – si vince con orgoglio». Soprattutto perché c’è sempre un rapporto speciale tra autori e librai che tastano il polso al lettore, spesso lo guidano alla scelta, diventando i protagonisti della filiera editoriale. Un ruolo fondamentale in un paese dove la radiografia della lettura lancia dati sempre più allarmanti. «Sono convinto — dice Andrea Camilleri, vincitore del premio pontremolese nel 2001 – che alla base del successo che incontrano i miei libri ci sia stata anche un’intensa campagna di presentazione e di promozione delle mie opere dovuta alla generosità dei librai di tutta Italia che mi ospitarono in appassionati incontri con il pubblico dei lettori. È stata una cosa emozionante, indimenticabile: da una libreria all’altra, ho visto aprirsi progressivamente il ventaglio dei miei lettori».
Ma se questo è il parere degli autori, mi piace ricordare l’opinione del libraio bibliofilo Alberto Vigevani: «Un premio che non ha, come tanti altri, ipocrite pretese letterarie o in ogni modo culturali, e viene assegnato ai libri più venduti, in una visione del mondo merceologica e incontrovertibile. Guareschi al posto del pur vicino Pea (grande scrittore morto raggiungendo tirature di mille copie, come del resto Svevo)». «Così il Premio — scrive Ungarelli — intreccia, edizione dopo edizione, una piccola storia dell’editoria italiana, fatta anche di personaggi minori e incorniciata in uno spettacolo popolare pieno di fascino e di curiosità. Il tutto poi accompagnato da testaroli, patona, padeletti, funghi e ottimo vino locale. Così il Premio vive e solo così può rimanere nel tempo; anche una piccola modifica lo farebbe apparire troppo simile agli altri 2.000 premi letterari che esistono in Italia».

Giuseppe Benelli

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