Storia

Hanno nella valigia
i cavalieri antichi
di Oriana Fallaci
(da “Epoca” del 6 settembre 1952)

Prima di lasciare i librai di Pontremoli fecero un giuramento. Erano riuniti in una sala del Municipio, proprio sotto il campanile, e le loro facce rugose apparivano, nella penombra, solenni come quelle di arcaiche statue di legno. Gli uomini vestivano per lo più abiti a righe, e avevano sul panciotto, bene in mostra, la catena d’oro. Le donne, più dimesse, tenevano al braccio sinistro certe ampie borse da spesa. Erano i librai più vecchi al mondo: i capelli bianchi apparivano come distinzione necessaria in quell’adunata. Uno a un certo punto si alzò, alto e massiccio, con baffoni all’umbertiana, e disse:”Ed ora, amici, propongo un solenne giuramento: quello di ritrovarsi nel nostro paese, ogni anno, in un dato giorno, a questa stessa ora, finché Iddio ci conserva, a fare una bella mangiata”. Seguì un lungo silenzio; poi i librai alzarono lentamente all’altezza del viso la mano e giurarono.

Pontremoli è un paese della Lunigiana, famoso fin dal Medio Evo quando era la porta delle grandi vie di comunicazione fra Toscana e la Lombardia, circondato da boschi di castagni e di pini. Tra questi boschi sorgono da tempo immemorabile Montereggio e Parana, villaggi di trecento anime, così piccoli che passano per frazioni del Comune del mandamento di Pontremoli; e questa è la terra dove si nasce librai.

A Montereggio e a Parana è difficile che la gente sappia leggere e scrivere; non ci sono che le pecore e castagni e si vive mangiando formaggio e polenta dolce, in attesa che l’inverno diventi primavera e l’estate autunno, così da un anno all’altro. Eppure ogni casa di Montereggio è piena di libri intonsi; e a ogni stagione c’è un pastore che lascia il villaggio e va per il mondo a fare il libraio. La storia dei pastori librai della Lunigiana si perde nel tempo. Si ignora il nome di chi si lanciò per primo nella grande avventura; si sa solo che la partenza dei neo-librai fu sempre solenne. Sembrava obbedissero a una strana ispirazione: si presentavano ai vicini e dicevano: “Vado”

Si chiamavano Maucci, Tarantola, Bertoni, Fogola, Vannini, Giovannacci, Rinfreschi. Dopo ore ed ore di diligenza arrivavano alla grande città, andavano da un editore e, con pochi quattrini ricavati dalla vendita delle castagne, del formaggio e delle foglie di gelso, compravano i resti del magazzino. Non avevano confidenza con l’alfabeto, ma “sentivano” quali libri era il caso di comprare e quali no: in virtù del sesto senso che, dicono è stato loro donato dal demonio in un’ora di benevolenza. Acquistavano la “Genoveffa”, il “Guerin Meschino”, i “Tre moschettieri”, le “Poesie” del Giusti, la “Massima Eterna” ed altri libri di preghiere, le “Tragedie” del Manzoni, l’ “Orlando Furioso”, la “Gerusalemme Liberata” e perfino il Boccaccio. Quando la valigia di fibra era piena, se la caricavano sulle spalle e andavano per le campagne italiane a offrire con mille accorgimenti i libri ai contadini. Aprivano per esempio una pagina qualsiasi dell’Orlando Furioso e cominciavano a declamare. Non leggevano, ma ripetevano le ottave che avevano sentito leggere da altri. I contadini, dopo essersi fatti giurare sulla Madonna dei Sette Rosari che lì dentro c’erano scritte proprio quelle belle parole, si decidevano a prendere il libro per non meno di dieci soldi. Dopo aver girato le campagne i librai scendevano di nuovo nelle città dove distendevano i libri sui muriccioli e sui marciapiedi.

La vita vagabonda durava da un anno all’altro. Quando avevano i soldi abbastanza per potersi comprare un carretto col ciuco, mandavano a chiamare la moglie, rimasta al villaggio, oppure sposavano la figliola di un altro libraio; e riprendevano a vagare. Per strada, tra una tappa e l’altra, nascevano i figliuoli. Li mettevano dentro alle ceste, fra i libri del carretto, perchè crescessero respirando l’aria della carta stampata e si facessero le ossa fra i titoli dei capolavori. Poi i più giovani emigravano, andavano in Francia, in Germania, in Romania, in Ungheria, e ovunque ci fosse una piccola colonia italiana.
Molti presero la via della Spagna e dell’America Latina. Il primo ad andare oltre Atlantico fu verso il 1850 Carlo Maucci, della Piana di Parana, che aveva dovuto interrompere la sua carriera di girovago in Italia, perchè sospetto di diffondere libri mazziniani. Carlo Maucci, imbarcatosi come mozzo, era partito con 180 volumi in lingua spagnola e decine di copie dei “Promessi Sposi”. In America lo aspettava la fortuna. Alla fine del secolo aveva fondato la “Casa Editoryal don Carlo Maucci”.Alla fine del secolo molti girovaghi pontremolesi avevano fatto un patrimonio. I loro figli andavano a vendere in carrozza ed avevano aperto notevoli Case Editrici. I meno fortunati possedevano almeno un bancarella fissa sotto i portici di qualche grande città. Da vecchi, cercavano un po’ di riposo, a quel modo. Ci pensavano i figli, cresciuti nelle ceste dei librai, a vagare per le montagne.

Ogni tanto qualcuno moriva e anche questo distacco non accadeva in un modo qualsiasi. Quando erano ormai molto vecchi e sentivano avvicinare il gran giorno, i pontremolesi facevano come i nobilissimi animali che a un certo punto della loro vita scappano a ricercare il luogo in cui sono nati. Tornavano ai boschi di Parana, di Montereggio e di Mulazzo e morivano lì. Ma per ognuno che se ne andava un altro cresceva. Oggi i pontremolesi, fra bancarellisti e girovaghi, sono qualche centinaio e reggono onorevolment e al mutare dei tempi. Partono ancora con la valigia di fibra. Così fece anni addietro Quirino Ghelfi che d’estate gira col suo carico tra Verona, Riccione, Cattolica e Rimini e d’inverno tiene la sua bancarella sotto iportici di Padova. Così ha fatto Walter Micheloni, figlio dell’oste di Mulazzo; e lo potete incontrare ogni giorno a Genova, in vico Falamonica.
Per far vedere che sono vivi e contano ancora qualcosa alcune settimane fa si dettero appuntamento a Mulazzo e tennero un congresso. Giunsero da tutte le parti d’Italia. Qualcuno arrivava in automobile, ma la maggior parte scendeva dal treno. Non si riconoscevano più , quantunque molti fossero imparentati fra loro.
Due, Elisabetta e Luigi Rinfreschi, non si vedevano da quarant’anni. Dal treno scese anche Bista Fogola, uno dei Fogola che ora sono sparsi un po’ dappertutto: a Pisa, a Torino, a Spezia, a Genova, ad Ancona. Venne uno dei Tarantola, uno dei Santoni, una discendente dei Maucci, Maria Maucci che incominciò a nove anni la sua carriera, a diciott’anni sposò un libraio, a vent’anni ne sposò un altro che le dette tre figli, ora tutti librai. Sessanta inaugurarono il congresso sul cucuzzolo della collina, fra i castagni e i pini di Mulazzo. Avevano alzato un palco alla meglio, con un microfono, quattro seggiole e una bandiera. Sul palco avevano fatto salire le autorità: il ministro Gronchi, Bompiani che rappresentava gli editori, la vedova di Leonida Campolonghi, Salvator Gotta, il Sindaco di Mulazzo con la fascia tricolore intorno alla vita, il Perazzoli, segretario dell’ “Associazione Librai Ambulanti con posteggio fisso”. Molti parlarono, ma il discorso impegnativo lo fece Gotta che, tra l’altro, disse un gran bene delle bancarelle. I librai stavano intorno, in piedi sotto i castagni, ad ascoltare con piglio competentissimo. L’indomani, quando furono soli, si barricarono dentro il municipio di Pontremoli e fecero il solenne giuramento per la grande mangiata annuale.

Oriana-3dafa

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